Comunità di San Leolino
Meditazione per il 31 dicembre 2024
Capita, a volte, che, in occasione di feste collettive, ti viene in mente una riflessione, una pagina di letteratura dimenticata, senza riuscire lì per lì a capire perché, ma che dopo tutto si rivela adatta ai sentimenti che stai vivendo in quel momento. Questa pagina mi è tornata in mente, pensando a questa sera di Capodanno in cui migliaia di persone si riuniscono, come per tradizione, per il cenone di fine d’anno e per gli immancabili botti che vorrebbero sancire la fine dell’anno vecchio e salutare l’anno nuovo. Personalmente, sono stato sempre allergico a questi riti collettivi, a questo divertimento di massa, che dicono poco per la vita concreta che, effettivamente, viviamo, piena di ansia per le guerre e le vittime innumerevoli che esse producono in una sorta di tacita rassegnazione. La pagina per me in questione è una pagina famosissima che abbiamo conosciuto sui banchi di scuola e che continuiamo a insegnare, sovente, con la stessa indifferenza e superficialità con la quale l’abbiamo imparata a scuola, mentre è piena di vita.
Si tratta del celebre dialogo di Giacomo Leopardi tra il venditore di almanacchi (i nostri calendari) e un passeggere, contenuto nelle sue Operette morali, forse scritta nel 1834 o anche prima. Il dialogo verte, infatti, sull’anno nuovo: a quale anno volete che assomigli, di tutti quelli che avete vissuto? Domanda il passeggere. A nessuno risponde il venditore. Non ne ricordo nessuno particolarmente bello. La risposta del passeggere è amara e tipicamente leopardiana:
“Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la vita futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattare bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”. Speranza vana, verrebbe da dire con il poeta di Recanati. Nessun anno, alla resa dei conti, è migliore di un altro. E allora, come spiegare la frenesia collettiva della sera di fine anno?
Come capita per molte delle Operette morali di Leopardi, anche questa del venditore di almanacchi e di un passeggere, ha la sua fonte d’ispirazione nelle pagine del diario del poeta, oggi conosciuto come lo Zibaldone. In una pagina del suo diario, infatti, scriveva Leopardi, cinque anni prima di scrivere questa pagina celeberrima: “…Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con a patto di rifarla né più né meno quale la prima volta…Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto nessuno…Che vuol dire questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, che tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per ignoranza del futuro, e per un’illusione della speranza, senza la quale illusione ignoranza non vorremmo più vivere come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti” (1° luglio 1827). Questo è, in sintesi, il messaggio che il passeggere insinua nelle argomentazioni del venditore che, oggi, potremmo vedere bene perfino nei così detti social.
Leopardi non è affatto quel “pessimista” della vulgata comune, sovente propagandata nei banchi di scuola. È un poeta, un grande poeta e come tutti i grandi poeti (rari, rarissimi) usa la propria intelligenza per scavare a fondo, nella propria anima, e per portare alla luce quelle domande profonde che tutti evitano con cura nell’illusione di essere più fortunati o felici degli altri. Nella poesia è d’intelligenza che si tratta, non di emozioni, sensibilità, sentimenti in ordine sparso, in totale libertà per così dire. In realtà, nel dialogo leopardiano, si tratta di due personaggi simbolici, per niente fumosi o enigmatici: il passeggere, - un’affabile, ma lucida controfigura del poeta -, rappresenta l’uomo di pensiero che, grazie al numero di anni e di esperienze, interroga il venditore, per fargli aprire gli occhi sul carattere fallace di ogni speranza futura; il venditore, invece, è l’immagine del sempliciotto (e quindi di buona parte del genere umano) che non sa trarre le giuste conclusioni del proprio vivere, preferendo rimanere nell’illusione e nell’inconsapevolezza. Così, messo alle strette dalle domande del passeggere, il venditore ammette di non voler tornare indietro per rivivere ciò che ha vissuto, ma si accontenta, con evidente svagatezza, di rimandare il proprio desiderio di felicità ad un improbabile, quanto impossibile, domani migliore. E tuttavia, lo stesso passeggere non darà spazio alla sua indignazione: la pietà per gli errori di un’umanità da commiserare lo spinge a non far scoppiare quella bolla di sapone in cui vive il venditore, finendo per acquistare il calendario “più bello”, e congedarsi con un augurio di una futura vita “felice”.
Fin qui l’operetta morale di Leopardi. Ma anch’io penso che la maggior parte del genere umano, anche quella parte in apparenza più colta, preferisce vivere, alla resa dei conti, nell’ignoranza e nell’inconsapevolezza, pur di pensare che il suo destino sarà sempre migliore degli altri. Il realismo leopardiano, tanto lucido quanto quasi insopportabile, apre per me il varco alla speranza cristiana, poiché la fede senza realismo umano non è degna di Dio, del Verbo incarnato. Ogni 31 dicembre, infatti, nelle chiese cattoliche, celebriamo il ringraziamento per l’anno che si chiude cantando il Te Deum. Dunque, nessuna falsa illusione su anni più fortunati e felici di altri. Piuttosto, il nostro passato e il nostro presente, è un frammento di vita per il quale dobbiamo solo ringraziare il Signore. Perché, come ha scritto san Paolo, “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio”. I cristiani, quindi, vivono nella pienezza dei tempi, se avranno autentica fede in questa speranza che è Cristo: il tempo, vissuto nella fede in Cristo, ha un significato di salvezza. Di questo siamo grati a Dio, sapendo che come egli ci ha donato vita nel passato, così farà nel futuro. A patto, però, di non smarrire questa sapienza che ci viene dalla presenza di Cristo in noi.
La riflessione realistica di Leopardi, dopo tutto, mi ha richiamato ad una espressione di Gesù, tanto dimenticata nei nostri anni superficiali e scompaginati anche per la vita profonda di tanti cristiani che, nelle cose di Dio, preferiscono vivere nell’illusione e nell’inconsapevolezza, pur di non cambiare mai sé stessi, il proprio modo di vedere la vita. Affermava Gesù, infatti: “Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido (o impazzisce), con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Mc 9,50). Quanta sapienza in queste parole. Lo sappiamo per esperienza: se in natura, oggi e rispetto al tempo di Gesù, il sale non può più perdere sapore, nella nostra vita, invece, può accadere benissimo. Eccome. Una progressiva incuria può portarci a diventare sciapi, sbiaditi, perduti nell’illusione, fino a vedere “impazzita” la nostra vita, mentre ci illudiamo che accada il contrario.
In questo momento non è il caso di mettere a fuoco gli antidoti a questo rischio tutt’altro che lontano dalla nostra fede. Limitiamoci a registrare la possibilità che sarebbe già un ottimo punto di partenza. E, allo stesso tempo, accogliamo il collegamento stabilito da Gesù: dal sale che si ha o non si ha dipende la pace con gli altri. Quanti contrasti, battaglie logoranti e inutili, fino a vere e proprie guerre, nascono dalla nostra insipienza, piccineria, egoismo ad alta tensione. Siamo insipidi e, ovviamente, accusiamo di tutto questo gli altri, finendo per gettare noi e loro in un vero e proprio inferno. Invece, san Paolo ammoniva: “Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12, 18). È possibile. Dipende dal sale, dal sapore che è in noi (L. Monti). I discepoli di Gesù si riconoscono da questo: dalla pace che hanno in loro, se Gesù è nel loro cuore, e dalla pace che sanno infondere in chi gli è vicino. Buon anno, nello spirito di questa sapienza cristiana, l’unica cosa che sa dare senso e sapore alla nostra vita. E soprattutto speranza. Personalmente non conosco altra speranza.
don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 31 dicembre 2024
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